Il mistero del bosco di Mauro Giudici - Bornoincontra

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Il mistero del bosco di Mauro Giudici

Premio Letterario

"Il mistero del bosco" di Mauro Giudici
Menzione Speciale della Giuria Edizione 2012



Il buio. Il buio caldo e accogliente accompagna il mio ritorno questa notte. Mi piace come la strada prende forma davanti ai fari della mia piccola 500, due piccoli pennelli di luce che rubano metri alla notte e al suo mantello. Il tepore dell'estate si percepisce anche se sto percorrendo luoghi tra alberi e montagne, il ricordo della serata appena trascorsa, l'euforia nelle vene e la certezza che domani sarà un altro giorno da trascorrere senza pensieri.
Pensieri placidi e tranquilli che aprono le porte al senso di oblìo che prelude al sonno. Una strada percorsa infinità di volte, pochi chilometri per abbandonare il centro abitato e raggiungere la mia abitazione al principio del bosco.
Mi piace sfidare questa strada non illuminata e lo faccio quando si presenta una bella luna piena, estate o inverno, è indifferente; è in quell'occasione che non mi permetto di contaminarne la bellezza e mi avventuro sulle curve a fari spenti, affidandomi alla natura e a questo paesaggio lunare che profuma di mistero e di sfida, nel sogno effimero che possa essere un passaggio segreto a una realtà fiabesca. Qui il buio non è il principio dell'abisso, è la cartolina dove un pittore solitario e povero ha potuto usare un solo colore senza osare tanto da allontanarsi da esso, dal nero signore delle ore più cupe, colui che concede al colore del cielo e dell'infinito di scendere più vicino per farci toccare la notte, un blu cupo e copiativo che toglie la parola e lascia solo le emozioni. E questi pensieri mi incantano, fermano il tempo e via via il bosco prende il posto dei prati, il bosco umido e scuro che sembra voler ghermire anche quei pochi metri di strada che mi separano da casa, una presenza che mi sorprende sempre; di giorno è l'amico fraterno pieno di colori e profumi dove ogni cosa sembra muoversi in un'aurea di pulviscoli, spore e pollini, di notte una porta infinita e misteriosa che sembra inghiottire ogni rumore, un paravento che divide il mondo conosciuto da quel qualcosa che inizia a vivere nell'oscurità, nel profondo di ognuno di noi, fin da bambini, quel qualcosa che ha sempre occupato l'angolo più buio della nostra stanza o della porta della cantina posta in fondo al corridoio più lungo, con un interruttore a tempo a stringerci la gola, indifesi verso il nulla... o il tuffo.
Eccomi qui. Una radura per parcheggiare le auto è una stradina in terra battuta di poche decine di metri e sarò arrivato. Sembra facile ma la cosa mi preoccupa sempre, la tranquilla sicurezza di qualche minuto prima lascia frettolosamente spazio a quella piccola sfera gelata laggiù, nello stomaco.
Il ragazzo che era in noi scompare per qualche attimo e lascia spazio al bambino che siamo sempre stati, il fanciullo come sublimazione di smarrimento, la stessa di un adulto in agitazione e alla ricerca di un posto libero, là dove un piccolo lampione fa ancora la sua parte e... c'è. Un posto c'è.
Al limite estremo del familiare cono di luce e fra due grosse auto; beh, sì. Forse un'impressione, ma ogni auto al cospetto della mia 500 sembra essere un'enorme rivale.
Una scatola di fiammiferi fra due auto e forse, proprio la consapevolezza di esserlo, mi fa sentire più indifeso.
Pazienza, farò in fretta, le chiavi già pronte nella mano e niente blocco al volante, le orecchie tappate e il respiro sospeso, quasi avessi paura dei miei stessi passi e poi... poi, mi sento uno stupido e rido tra me, rido di questi timori. Pensieri e pensieri, banali angosce che mi fanno perdere tempo, accorciano il tempo da dedicare al sonno. Il posto è deciso, parcheggio. Decido di infilare il muso dell'auto fra le altre così da trovarmi di fronte a un terrapieno erboso, alto un paio di metri, che delimita l'ingresso del bosco. Ecco, niente di più facile. Un ultimo controllo e, mentre mi accingo a spegnere il motore, lo sguardo corre sopra al volante, oltre il piccolo parabrezza e giù, fino a cercare il confine della luce dei fari, un chiarore oltre il quale mi aspetto di vedere solo ciuffi di erba e sassi, Qualche ramo spezzato e... qualcosa che mi blocca, mi toglie il fiato. Un cane,  enorme, nero e perfettamente immobile; vedo il suo profilo in parte, illuminato solo da un lato. Sembra un incrocio tra un dobermann e un mastino o, almeno, penso. So solo che rappresenta la figura più vicina a quella di un cane che la mia immaginazione possa rappresentare, il guardiano silenzioso di un tetro castello in un libro di fumetti o il servo fedele di un uomo in divisa di un film in bianco e nero. In un modo o nell'altro, sento biancheggiare i suoi denti in fondo al mio stomaco.
La mia mano è un blocco di gesso, immobile sull'accensione e lui altrettanto, lassù sul terrapieno. All'improvviso non so che fare. Mi convinco che è solo un cane ma poi, una vocina che insinua dubbi, "... e se fosse un cane rabbioso?", " ... se fosse un cane randagio e aggressivo?". Sento dei colpi sordi. Il cuore e l'immaginazione la fanno da padroni, i colpi partono proprio dal mio petto e il respiro trattenuto fa il resto. Mi convinco: tutta immaginazione. Ora provo a spegnere l'auto e lui se ne andrà per i boschi.
Lo faccio, spengo il motore e con esso, la luce. Rimane solo il fioco illuminare del lampione poco lontano, solo un'idea di luce, quasi solo chiarore.
Il mio sguardo non si è mosso, ha immaginato. Ma prima era anche il rumore ad occupare gli spazi, ora no.
Silenzio. Il tempo corre lento e pastoso. Sempre silenzio.
Improvvisamente quell'ospite inatteso si muove e nella penombra scende dal terrapieno, si dirige verso me. In un attimo arriva all'angolo destro della mia auto e sparisce. Ancora silenzio, un'assenza di rumore quasi assordante. Mi aspettavo di sentirlo allontanare sulla ghiaia e nella luce rossastra dei fari posteriori. Niente. Cosa fare? "Non conosci il tuo nemico, non puoi scendere come se nulla fosse, con tutto quel bosco buio attorno", mi dico. Mi guardo attorno, mi giro e rigiro nella piccola scatola di fiammiferi, i vetri a poche spanne da me. Stringo le palpebre, cerco di abituare gli occhi alla poca luce.
Divento nervoso, è tremendo non sapere, immaginare cose inesistenti. Dove sarà andato? Guardo ancora oltre il lato del passeggero. Niente. Decido allora di girarmi verso il mio lato.
Improvvisamente, un colpo alla portiera, proprio sul vetro e i miei occhi si ritrovano a fissare i denti del cane, solo cristallo a dividermi da essi. L'aria dell'ultimo respiro si è fermata lì, senza entrare o uscire. Un'apparizione improvvisa e una repentina scomparsa.
Quasi non ci credo. Sono spaventato. Mi guardo attorno, l'auto sembra troppo piccola per difendermi. Uno sguardo a ogni vetro e mi trovo a girare su me stesso vorticosamente, per poter controllare in ogni direzione. No, non devo fare così. Respiro. Riprendo il controllo. E' eccessivo. Sto esagerando con le reazioni. Devo calmarmi. Il bosco ha animato i miei incubi. Un profondo respiro e mi concentro. Qualche secondo di silenzio e la macchina sembra fare rumore. Un rumore strisciante. Un rumore che appare e scompare, non ne individuo la fonte, il senso. Poi, capisco. E' lui. Gira attorno all'auto appoggiando il suo corpo alla carrozzeria. Sembra provocare, logorare. Uno, due, tre giri e forse un'altro. Poi non li conto più. Silenzio. Una tregua. Sarà andato? Aspetto, ma ... nulla. Ho quasi paura di far rumore, non deglutisco nemmeno. Mi sporgo verso il vetro del passeggero e ... bam!
Mi trovo a tu per tu con i suoi denti, i cuscinetti fangosi delle due zampe davanti alla faccia.
Mi spavento così tanto che per contrasto caccio un urlo da belva e picchio a mia volta sul cristallo alzato.
La reazione lo fa abbassare e scomparire, rimane solo tuffo quel pulsare nelle tempie, quel rumore cupo e doloroso, il suono del cuore che non la vuoi sapere di rimanere al suo posto. Fa male, la paura allo stato puro fa male. Prima era sorpresa, ora è paura. Ora non è più un cane, è il mio mostro personale, la creatura dei boschi, gli occhi stessi del buio.
Ma, ecco. Ricomincia. E' tornato a girare attorno, strisciando, dando scossoni alle lamiere leggere. Un assedio ai mio rifugio, e non posso uscire. Non posso prevedere cosa può farmi. Non so quanto veloce posso correre e sarei anche troppo distratto dal timore di sentirlo dietro alle mie gambe o di trovarmelo davanti; lui nel suo regno, io nel lenzuolo nero della notte. Devo trovare il modo di uscire, oppure... no. Rimetto in moto e parto uscendo a retromarcia. Lo vedo. Una macchia nera e immobile tra i miei fari. Non mi fermo a guardare. Inverto il senso di marcia e mi avvio, allontanandomi. Lo vedo bene, ora.
Immobile nel rossore dei fari, ma solo un momento. Mi segue, cerca proprio: me. E' un cane o è il parto delle mie fantasie? E' a quel punto che la paura lascia il posto alla rabbia.
Freno. Torno verso di lui, in retromarcia. Tutto è rosso e scuro là dietro, anche lui.
La mia mente quasi prova a sorridere, il mondo paranoico dei racconti di Stephen King è materializzato proprio nel bosco vicino a casa. Non ho nessuna intenzione di viverlo. Ho intenzione di vedere quella bestia prendere il mio posto e spaventarsi.
Ora sono io il cacciatore e lo inseguo, sempre a marcia indietro, mentre "lui" mi scansa abilmente, quasi che la radura sia l'arena di un antico duello. Uomo e fiera, denti e metallo. Poco dopo mi accorgo di essere il solo lì in mezzo, incredulo ed esausto nella mia piccola scatoletta blu.
Forse è fuggito, la situazione si è rovesciata e si è spaventato. Ma l'adrenalina addosso è ancora in attività, il cuore accelerato. Non mi fido ancora. Uno sguardo tutto intorno, alla radura, alla strada, al bosco dominante, ai terrapieno là in fondo, ai buco tra le due auto come un dente mancante nella bocca di questa notte. Niente. Nemmeno il movimento di una foglia. Lascio che passi qualche minuto, anche dieci, non so. Ancora un controllo. Ma è tuffo fermo. Sono quasi umiliato di me stesso. Non avrei mai pensato di avere una reazione così. Decido di tornare di nuovo a sistemare l'auto tra le altre. Pochi metri e mi ritrovo ai punto dove era iniziato tutto. Guardo fuori, oltre il vetro. Non c'è più, è stato il buio, la stanchezza ... forse. Rimango lì un attimo, poi spengo il motore.
Il mio respiro. Qualche ticchettio dei motore che si raffredda. Sono così immobile che posso sentire il rumore delle mie ciglia. Ma.. ecco! Questione di un attimo ma si è aggiunto un rumore. Tutto si ripete. E' lui, ha ricominciato il suo stillicidio, gira attorno alla macchina e tiene a farmelo sapere.
Basta! Voglio arrivare a casa, voglio dormire, voglio solo uscire da quest'incubo.
Riaccendo l'auto ed esco di nuovo all'indietro. Ho deciso. lmboccherò il largo sentiero che porta fino ai cancello di casa. Non sono altro che cinquanta metri ma il solo pensiero di dover cercare di coprirli a piedi mi angoscia, mi trasforma le gambe in due sacchi di sabbia. li buio del bosco su ogni lato, poi. Neanche a parlarne. Meglio la mia sicura scatola di latta. Mi avvio sullo sterrato. Il biancore della strada illuminata dai fari è un contrasto confortante e ogni metro è una piccola conquista. Neanche fossi a un passo dalla cima dell'Everest.
Ecco. Sono arrivato. Non potrei lasciare qui l'auto perché i vicini, al mattino presto, dovranno uscire e io sto ostruendo la strada. Ma non voglio fare nemmeno un metro in meno; anche ora la cancellata mi sembra troppo lontana malgrado non ci siano più di sei metri o quasi. Cerco di addossare il più possibile l'auto allo steccato che delimita la stradina, nell'illusione che la mia Cinquecento diventi anche più minuscola di quello che è, ma è solo uno scrupolo inutile. A quel punto rimane solo un ultimo sforzo, una corsa senza voltarmi fino a raggiungere il cancelletto a lato del passo carraio.
Sembra facile ma aspetto. Tutto è silenzio e il bosco è raccolto tutto intorno, ancora più vicino. il limitare delle grosse piante è come la riva di un mare infinito, se alzo lo sguardo incontro solo l'oscurità più misteriosa e profonda. Non so decidermi. Nell'inconscio quell'animale là fuori è solo la materializzazione di un'entità, un sogno sbagliato che non trova pace.
Abbasso un poco il finestrino e provo ad ascoltare con attenzione. Silenzio. il bosco rimane identico, in attesa. Provo ad abbassarlo ancora di più. Istintivamente faccio dei piccoli versi con la lingua, come quando si cerca di attirare l'attenzione di un micio. Che angoscia, magari non si era accorto di me e ora sto richiamando la sua attenzione ! Non importa, la curiosità ha il sopravvento. Divento più scaltro, abbasso del tutto il finestrino, anche se al di là è tuffo bosco. Riprovo con il richiamo, insisto. Niente.
E' fatta. Prendo coraggio e apro la portiera, non la spalanco, l'apro appena un po'; il rumore provocato mi fa l'effetto di un tuono. Aspetto ancora. Buio.
Allargo l'apertura piano piano fino ad avere il braccio completamente disteso e il corpo sporgente dal sedile. Così facendo mi ritrovo con la faccia rivolta verso il basso, sullo spazio che mi divide dallo steccato. Spalanco gli occhi per mettere più a fuoco quell'angolo di erba appena sotto la portiera e il cervello percepisce subito un'anomalia nella macchia color petrolio; una macchia grande, quasi rotonda e più scura proprio nel centro. E' lui. L'istinto mi dice che è lui, accoccolatosi nel silenzio vicino a me, vicino al suo obiettivo. E l'avevo anche chiamato!
E' una frazione di secondo. Ho anche il pensiero estremo di trascorrere qui tutta la notte, barricato tra quattro vetri.
Un pensiero svanito per una reazione istintiva e repentina: chiudo la portiera fregandomene del rumore e mi ribalto sul sedile del passeggero evitando di inciampare nel cambio, apro la porta opposta e mi butto all'esterno senza guardare nemmeno un istante in che condizioni lascio l'auto o dove si trovi l'animale. Non è un correre, è un "rotolare" verso il cancelletto, quasi fosse l'ultimo metro di una pista di atletica, i muscoli sotto sforzo e il cervello quasi inerte.
Ci sono! Afferro lo stipite di ferro e la porta cede subito sotto la mia spinta, apro e chiudo il cancelletto dietro alle mie spalle e... Il mondo rallenta, riprendo il controllo. Mi volto per guardare la mano che ha appena abbandonato la maniglia dietro di sé. Lui è lì, i suoi occhi sono lì, a pochi centimetri dalla mia pelle, in mezzo, una solida rete di metallo.
Sono esausto, sudato. Ma ho ripreso il controllo del cuore, del respiro. Sì, il respiro. Bevo aria. Senso di libertà. E sento anche i postumi della paura che mi adombrava. Ora sembra lontana, un'emozione venuta e dimenticata.
Solo ora ho il tempo per un pensiero, per quegli occhi, per quell'animale misterioso che non mi ha mai aggredito, in realtà. Un'anima errante tra le felci dei bosco, un cuore sulle tracce di un altro, alla ricerca di un amico a cui accompagnarsi nella notte. Un essere con le mie stesse paure primordiali, i miei stessi timori: essere troppo inermi e minuscoli davanti all'infinità del bosco.
Forse solo un estremo bisogno di vicinanza in quegli occhi. Non lo saprò mai. Quella notte, il bosco li ha resi misteriosi per sempre.
Motivazione della Giuria
Un duello tra due paure: quella di un uomo protetto dal guscio della sua piccola auto e quella degli occhi di un cane,
il tutto alimentato dal mistero del bosco.
 
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