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BorNoir - Pirsighì

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 PIRSIGHI'
 di
 Elena e Michela Martignoni


 
La prima delle sette pugnalate l'ho ricevuta al centro della schiena. Mi sono piegato in avanti, urlando. Subito sono arrivate la seconda, la terza e la quarta alla base del collo e sulle braccia. Mi sono girato e così le altre tre le ho prese dritte nel petto.
 
Era tardo pomeriggio e nel bosco non c'era nessuno. Solo profumo di resina e ciclamini, e  noccioli  ai bordi del sentiero che esplodevano di frutti ancora coperti dalla pellicola verde.
 
Quando ho smesso di urlare mi sono accorto che non perdevo sangue, che non avevo ferite e che nemmeno la mia t-shirt era lacerata.
 
Mi ero sognato tutto.
 
No, non proprio tutto. Il dolore feroce non me l'ero sognato.
 
Coperto di sudore, nonostante la frescura del bosco, sono corso verso la mia bici. L'avevo lasciata vicino alla croce bianca di Salven, quando ero salito a piedi lungo il sentiero che si snoda di lato a una casetta prefabbricata che sta lì da anni.
 
Ho pedalato come un ossesso fino al paese cercando di non pensare. Tagliavo le curve in discesa, costeggiando i prati e le cascine dove capre e mucche pascolavano ignare di quello che mi era appena successo. Ho rallentato solo all'altezza dell'albergo Rusen. Lì turisti e gente del luogo passeggiavano, parlavano, ridevano. La normalità di un paese di villeggiatura a luglio.
 
Sono entrato in casa e ho chiamato mia moglie. Marta stava cucinando. Assurdo, ha detto Marta mettendomi nel piatto delle cappelle di porcini impanate, te lo sei immaginato. Mangia che si fredda.
 
Con questo per lei l'argomento era chiuso.
 
Ho cercato di dimenticare e il giorno dopo per esorcizzare la fifa  me ne sono andato al laghetto di Lova da solo. A piedi. Marta è troppo pigra. Quella salita che non ti lascia tregua non fa per lei. Io ho fatto il mio record: meno di un'ora con una sosta di sei minuti davanti alla cappella in onore dei caduti che c'è prima di affrontare l'ultima tirata prima dello sterrato che porta al Lova.
 
Mentre stavo completando il giro del lago è successo di nuovo.
 
Un laccio alla gola, improvviso, sempre più stretto, più soffocante. Ho cercato di strapparmelo dal collo, ma il respiro si faceva sempre più corto e la vista si annebbiava… un'istante prima di perdere i sensi ho sentito che il cappio si allentava. Mi sono accasciato a terra cercando il bandolo del respiro, scosso dai conati. Il cielo blu ruotava attorno a me e le punte delle montagne si toccavano intorno al lago verde scuro mentre asciugavo le lacrime che non ero riuscito a trattenere. Mi sono voltato per vedere se il mio assalitore stesse scappando, ma non c'era nessuno.
 
Due villeggianti, zainetto sulle spalle e scarponcini di camoscio, si sono avvicinati per darmi soccorso. Il peggio era passato però e li ho allontanati tranquillizzandoli con una scusa.
 
Sono sceso dal Lova lentamente, con le gambe molli e la testa vuota. L'ho raccontato a Marta perché le dico sempre tutto, ma lei mi ha guardato perplessa, senza fiatare, rimestando il  risotto con i funghi.
 
Me l'ha servito nel piatto, raccontandomi un paio di pettegolezzi sui nostri amici.
 
La notte non riuscivo a dormire. Non trovavo una risposta ragionevole a ciò che mi stava capitando. Forse ero esaurito, troppo lavoro, troppi stress. Il giorno dopo ero nell'affollato ambulatorio del paese in attesa del medico. Ma me sono andato prima del mio turno. Era tempo perso: avevo fatto un check-up il mese prima e la mia salute era ottima.
 
Allora ho inforcato la bici e mi sono diretto agli impianti di risalita del Monte Altissimo. Prima di arrivarci, girando a destra, quasi davanti al campeggio, c'è una bella passeggiata piana tra i boschi. Ho proseguito pedalando fino a che la boscaglia non mi ha attirato. Ho legato la bici e ho continuato a piedi all'ombra degli abeti, alti e dritti.
 
L'aria leggera mi ossigenava i polmoni mentre mi inerpicavo appoggiandomi a un ramo raccolto da terra che mi ripromisi di intagliare.  Il rumore dei miei passi e i canti degli uccelli rompevano il silenzio. Salendo mi lasciavo alle spalle  gruppi di gitanti e coppiette in cerca di luoghi solitari.
 
Di colpo una fucilata. Una fucilata nel petto, un napalm che mangiava la mia carne. Sono caduto a faccia in giù, tra le radici affioranti, tagliandomi un sopracciglio, la bocca piena di aghi di pino. Ma il mio torace, a parte il dolore, era intatto. Mi sono alzato e ho asciugato il sangue che colava dal taglio. Ancora una volta sono tornato tremante alla bici e ho preso la strada di casa masticando l'angoscia.
 
Nessun commento di Marta sulla mia fronte ferita, né sulla maglietta sporca di terra e di sangue. Ha scosso la testa guardandomi storto mentre mi lavavo e mi cambiavo.
 
Il delizioso profumo di pirsighì in umido - così a Borno chiamano i finferli - aleggia nella cucina e fa da sfondo al mio racconto. Marta ha rovesciato la polenta sul tagliere e ha mi riempito il piatto come se niente fosse.
 
Dopo cena ci siamo messi a leggere seduti davanti alla vetrata della casa che si apre sull'Adamello. Jazz in sottofondo.
 
Ma nel cuore della notte mi sono svegliato. Dolori atroci mi dilaniavano la pancia.
 
"Marta, fai qualcosa, sto malissimo…" le ho detto contorcendomi nel letto " chiama la guardia medica…"
 
"Non occorre. E' la tua solita immaginazione, signor scrittore" mi ha risposto sbadigliando "i tuoi personaggi si stanno vendicando. Quanti ne hai ammazzati negli stupidi libri che scrivi? Pugnalati, strangolati, fucilati… adesso è arrivato il loro momento. "
 
No, Marta, ti sbagli, vorrei dirle con l'ultimo respiro che mi resta. Nessuno dei miei personaggi è morto avvelenato dai pirsighì… ma ormai non riesco più a parlare. Mia moglie mi osserva morire con un'espressione che non mi piace.
 
E' un sorriso da vedova felice quello che vedo prima di chiudere gli occhi per sempre.
 
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