Ritorno a casa di Cinzia Anedda - Bornoincontra

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Ritorno a casa di Cinzia Anedda

Premio Letterario

 "Ritorno a casa" di Cinzia Anedda
Premio Speciale della Giuria – Edizione 2018



Sento lo sferragliare della metropolitana che entra in stazione mentre sto ancora armeggiando con il biglietto per poter attraversare i tornelli.
Mi precipito giù per le scale e arrivo sulla banchina giusto in tempo per assistere alla chiusura delle porte e alla partenza del convoglio.
Accidenti!
Alzo gli occhi verso il monitor. Il display informa che l’attesa del treno successivo è di sette minuti. Pazienza. Per fortuna sono in anticipo.
La metro arriva puntuale. Salgo e partiamo.
«Fermata Lotto. Apertura porte a destra.»
Le porte si aprono, qualcuno scende. I passeggeri in partenza salgono guardandosi intorno per individuare i posti liberi.
Le porte non si richiudono.
La voce dello speaker si fa largo tra l’impazienza dei presenti: «I signori passeggeri sono invitati a scendere dal treno e ad abbandonare la stazione».
Una manciata di secondi e si sente un boato, poi più nulla. All’improvviso siamo al buio.
Passano pochi minuti e si accendono luci   intermittenti. Ci affrettiamo verso l’uscita più vicina. È incredibile:   nessuno corre, nessuno grida. Anzi, il silenzio è irreale. In mezzo alla   folla due giovani arabi hanno uno scambio di battute ad alta voce. Il mio primo   pensiero è pregiudizievole: se quei due sono kamikaze, per noi non c’è più   scampo.
Nonostante questo, la mia unica   preoccupazione non riguarda la morte, bensì come raggiungere la stazione   ferroviaria dove mi attende un posto sul Frecciarossa che mi riporterà a casa,   dalla mia famiglia.
Appena fuori troviamo un autobus a nostra   disposizione che compirà lo stesso tragitto della metropolitana. Poco più   tardi arrivo in stazione e salgo sul treno.
Percorro il corridoio finché trovo il mio   posto. I pochi passeggeri presenti, mi salutano con un sorriso e riprendono a   guardare fuori dal finestrino. Noto quasi subito che nessuno ha un cellulare   in mano e in quel preciso istante mi accorgo di non avere con me la borsa. L’avrò   persa nella confusione. Spero solo che qualcuno la trovi e mi faccia riavere   almeno i documenti. Più ci penso e più mi rendo conto di quanto non sia   affatto preoccupata. Ho la netta sensazione di vivere in un’altra dimensione,   in una realtà parallela. Sorrido: forse ho visto troppi episodi di X-Files.
Lungo il corridoio del treno, appeso in   alto, c’è un monitor che trasmette il notiziario. Non c’è audio e anche le   immagini vanno e vengono. Cerco di carpire qualche informazione sul guasto   alla metropolitana, ma è come quando ti sforzi di ricordare un evento e non   ci riesci. Piuttosto dovrei avvisare mio marito e mia figlia che sono partita   e che sto bene. Se stanno guardando il telegiornale in questo momento, di   certo sono preoccupati. Ma sono senza borsa, accidenti! E quindi, senza   telefono. Chiedo agli altri passeggeri. Mi guardano con un sorriso e   allargano le braccia: sono nella mia stessa situazione. Mi rassegno e mi   appisolo. Il sonno è agitato. Sogno la mia famiglia, mi sembra di sentire la   voce di mio marito Matteo che mi invita a tornare da lui. Certo che sì, mica   l’ho lasciato! Vorrei dirglielo, rassicurarlo, ma le parole si fermano in   gola. Mi fanno tossire… mi sveglio all’improvviso. Faccio fatica a respirare,   mi manca l’aria. Qualcuno apre il finestrino e va meglio.
Siamo ancora in movimento. Mi sembra che   questo viaggio non finisca mai. Ho perso la cognizione del tempo. Anche il   paesaggio che attraversiamo è sempre uguale o almeno così sembra. Non so come   ingannare l’attesa e, inevitabilmente, mi addormento di nuovo. Stesse   immagini e stessi suoni: un fastidioso bip-bip e le voci di Matteo e di mia   figlia Sara che mi ripetono in continuazione “apri gli occhi, torna da noi,   ci manchi”.
Ho persino la sensazione di una loro carezza   sulle mani e sul viso.
Lo stridore dei freni mi sveglia. Stiamo   rallentando. Il treno si ferma, ma non vedo alcuna stazione. Siamo circondati   da campi coltivati e prati fioriti fin dove arriva il mio sguardo.
Un controllore si materializza al mio fianco.
«Signora, deve scendere.»
«No. Perché? Io devo raggiungere la mia   famiglia. Devo ritornare a casa.»
«Lo so. Per questo motivo la invito a   seguirmi verso l’uscita. Lei ha sbagliato treno.»
I soccorsi arrivano nel giro di pochi minuti. La stazione è immersa in un fumo denso e acre. Paramedici, forze dell’ordine e uomini della Protezione Civile avanzano con cautela illuminando la scena con le torce. Indossano maschere antigas e comunicano tra di loro a gesti. Nessuno corre, nessuno grida. Anzi, il silenzio è irreale. In mezzo alla folla due giovani arabi hanno uno scambio di battute ad alta voce. Probabilmente cercano le loro mogli o i loro bambini.
L’esplosione non ha causato danni strutturali, non ci sono stati crolli e a prima vista l’onda d’urto è stata lieve. Il problema più grave è il fumo. Molti passeggeri hanno difficoltà a respirare, ma sono coscienti e vengono accompagnati in fretta verso l’uscita. Altri, invece, sono feriti e hanno perso i sensi. Tra questi c’è Claudia. Il suo battito è debole. Bisogna fare in fretta. A sirene spiegate, l’ambulanza raggiunge il Policlinico, già allertato.
I paramedici spingono velocemente la lettiga lungo il corridoio che dall’ingresso del Pronto Soccorso porta alle sale emergenza. Più che le ferite esterne, che si rivelano superficiali, a preoccupare i medici sono le condizioni dei polmoni. Claudia viene stabilizzata e trasferita in Terapia Intensiva, in coma farmacologico.
Nel frattempo viene avvisata la sua famiglia. Fortunatamente la donna portava la borsa a tracolla e i soccorritori l’hanno consegnata al posto di Polizia dell’ospedale.
Due ore e 200Km più tardi, preparata in fretta e furia una valigia e recuperata sua figlia a scuola, Matteo Zurini, il marito di Claudia, arriva al Policlinico e viene subito accompagnato da sua moglie.
Il medico di turno lo mette al corrente delle condizioni della paziente: la situazione è seria e le successive ventiquattro ore sono decisive. I polmoni sono compromessi a causa dell’esposizione al fumo e si attendono i risultati della Risonanza Magnetica per escludere danni cerebrali.
«Potete andare da lei. Parlatele. Fatele sentire la vicinanza e l’affetto. Credo possa percepirlo.»
Nei giorni successivi Matteo e sua figlia Sara si alternano al capezzale di Claudia. Cercano in tutti i modi di stimolarla e di stabilire un contatto con lei. Le raccontano quello che succede in ospedale, leggono gli articoli, usciti sui quotidiani, riguardanti l’incidente in cui è stata coinvolta, la accarezzano, le ripetono con insistenza “apri gli occhi, torna da noi, ci manchi”.
In sottofondo il bip-bip del monitor che controlla i battiti cardiaci e l’ossigenazione del sangue. Matteo e Sara si accorgono di amare quel suono ripetitivo e fastidioso solo quando si trasforma in un allarme. Claudia ha una crisi respiratoria che li getta nel panico. Temono di perderla.
Minuti che durano un’eternità e, nonostante tutto, hanno un termine. Claudia ricomincia a respirare e lentamente migliora.
«Papà, papà, guarda! La mamma si sta svegliando!»
Claudia sta aprendo gli occhi, con fatica.
«Cosa mi è successo?» La voce è un soffio.
Il monitor inizia a suonare, impazzito.
Il medico di turno si precipita nella stanza seguito da due infermiere con il carrello per le emergenze. Teme il peggio. Ausculta cuore e polmoni, misura la pressione, controlla la saturazione dell’ossigeno nel sangue. Poi si volta verso padre e figlia con un sorriso radioso.
«È fuori pericolo. Potrà tornare presto a casa.»
Motivazione della Giuria
Un boato, poi il buio. La discesa di Claudia in metropolitana si trasforma in un “viaggio dentro di sé” mentre è in coma farmacologico. Una storia che dosa con equilibrio vita sospesa e realtà, in un racconto che sorprende per sceneggiatura e originalità di lettura.
 
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